«Il mio nome è David Blank e sono un cantante. La musica è al centro della mia vita fin da quando ero bambino: mio padre era un pastore protestante, e sono cresciuto immerso nella musica gospel. Da lì mi sono poi spostato verso il pop: mio padre era un grande fan di Bob Marley e Michael Jackson. Durante l’adolescenza, li ascoltavo in continuazione, insieme alla musica nigeriana, di cui mio padre era ossessionato. Ricordo che la mattina di Natale passavamo dalle carole natalizie all’highlife (genere musicale dell’Africa occidentale, nato in Ghana e Nigeria).
Con un padre così appassionato di musica, in chiesa dovevo pur trovare il mio ruolo. Non volevo suonare la batteria né altri strumenti, così ho detto: “Dai, prendo il microfono”. Da quel momento non l’ho più lasciato.
Alla base di tutto c’è sempre l’amore: anche la mia musica nasce dall’amore che ho per le persone, per me stesso e per la comunità.
Cerco di raccontare la mia storia attraverso le canzoni, pensando a chi mi ascolta. Voglio essere il più trasparente possibile e parlare di quello che ho in mente, affrontando i problemi che ho incontrato crescendo in un Paese dove, in un piccolo paese delle Marche, la nostra era l’unica famiglia nera.
Da bambino non ti accorgi del razzismo, ma crescendo noti gli sguardi e gli atteggiamenti diversi. All’inizio ti feriscono perché ti fanno sentire diverso. Poi, o ti ci abitui, oppure inizi a reagire. Io ho scelto di farmi sentire e di farmi ascoltare, e non è la stessa cosa. Adesso lotto attraverso la musica e mi faccio sentire con la mia voce. È tutto qui.
Vogliamo far capire che l’Italia sta cambiando, le facce italiane stanno cambiando, e noi siamo parte di queste nuove facce italiane. Siamo qui, e siamo italiani anche noi. Milano, in apparenza, sembra accettare più del resto d’Italia, ma c’è ancora una selezione su chi può rappresentare la musica della comunità nera e come farlo. Noi, però, abbiamo le nostre voci e vogliamo raccontare la nostra storia a modo nostro. E ci stiamo riuscendo.
Recentemente ho corretto una persona riguardo la mia identità e mi ha accusato di essere arrogante. Mi ha infastidito, perché cerco sempre di essere il più diplomatico e calmo possibile quando esprimo le mie opinioni. Non sono riuscito a trattenermi.
Le cose belle sono più difficili da ricordare, ma una delle più dolci che mi hanno detto ultimamente (e sembrerà una banalità) è che assomiglio a mia madre. Sentirmi dire che somiglio così tanto alla persona che mi ha cresciuto è una delle cose più belle che potessero dirmi.»
Taccuino antropologico
In “Full Metal Jacket”, il sergente istruttore urlava: «Qui non si fanno distinzioni razziali! Qui si rispetta gentaglia come ne*ri, ebrei, italiani o messicani! Qui vige l’eguaglianza: non conta un cazzo nessuno!». Le male parole, dette da un certo tipo di gente, vanno diritte alla dignità, e la sfregiano. Affondano e lasciano un rancore che si rivolge subito a se stessi. Non sono semplici insulti. Sono ordini. La risposta deve esser antifragile, una parola coniata da Nassim Taleb per descrivere chi si rafforza quando sottoposto a stress. La black music milanese è parte del processo di resistenza: come nel concerto senza pubblico dei Pink Floyd a Pompei nel 1971, in Africa si suona per gli spiriti.